Qualche tempo fa ebbi modo di esprimermi sul tema dei diritti, denunciando con disillusa penna la profondissima crisi che caratterizza il nostro mondo. Esclusione, odio e sopraffazione sembrano essere, in relazione ai fenomeni migratori e non solo, le sole cifre della contemporaneità. Talché risulta del tutto lecito sollevare un interrogativo:
come è possibile che i diritti dell’uomo, per definizione sacri e inalienabili, vengano da sempre calpestati? Come è possibile che essi rimangano, spesso e volentieri, lettera morta?
Per rispondere occorre soffermarsi almeno un attimo sulla genesi dell’aggettivo “sacro”, che nel senso comune equivarrebbe ad “inviolabile”.
Il termine sacer (sacro) compare per la prima volta nel lessico giuridico della Roma arcaica. Sesto Pompeo Festo (autore dell’opera Sul significato delle parole) ha consegnato alla memoria l’enigmatica figura di homo sacer, un oscuro personaggio del diritto romano. Ma chi è homo sacer?
Si definisce sacer l’uomo che compare sulla scena politica soltanto in forma negativa, come l’escluso. Egli è escluso sia dalla comunità politica sia dall’ordinamento divino e pertanto può essere ucciso impunemente, da chiunque e in qualsiasi momento.
Certo. Questa figura non esiste più, come tale, nel mondo moderno.
Eppure, nelle sue molteplici metamorfosi – l’apolide, l’armeno, l’ebreo, il rifugiato.. – egli continua a vivere, incarnando il fondamento violento di ogni legge. Egli non è semplicemente una figura paradigmatica dell’assenza di diritto.
Piuttosto incarna senza mezzi termini una denuncia concreta: che tutti i cittadini possono diventare homines sacri e che non è possibile alcuna sovranità senza violenza e vuoto di diritto.
Per uscire da quest’impasse sarebbe necessario immaginare un orizzonte politico libero dai nazionalismi e dal presupposto della cittadinanza. Affrontando il problema dello scarto fra nascita e nazione (fra uomo e cittadino), scarto che determina l’esclusione degli apolidi dalla vita politica.