Avvertenza:
cadono nel dominio dell’esistente due differenti tipi di testi, i testi che devono essere letti e quelli che sono destinati a non esserlo. Lo scritto qui presente rientra senza dubbio nella seconda casistica – come del resto le menti più acute non avranno trascurato di intuire.
Questo, per farla breve, non è un testo da leggere.
Non certo perché non ne valga la pena – è infatti il secondo, parto quanto mai inatteso, dei Quaderni pragmatici per animi contemplativi.
Si tratta di un testo da ascoltare. Da farsi leggere mentre ci si culla comodamente nel proprio lettino, accoccolati sotto il piumone in una posa che non può essere definita adeguatamente se non come mimesi dissoluta di un ricciolo di burro.
Si tratta di un testo per heideggeriani annoiati, per esistenzialisti ipocondriaci, per ipersensibili lettori di Sartre, nauseati dalla contingenza del mondo.
Un Quaderno per artisti e scrittori, nonché per amanti appassionati del weekend e dell’ozio, per coloro che disprezzano la frenesia del lunedì mattina e che non riescono a capacitarsi del perché il rapporto fra i giorni in cui si è schiavi dell’azione e quelli da dedicare alla contemplazione sia, contro ogni velleità letteraria, di cinque ipertrofici e pingui mezzi.
L’autore ha in questo caso volontariamente scelto di non calcare la mano, per evitare di indugiare nel dolore, e così ha censurato l’intenzione di far culminare il titolo nella grandiosa espressione cronache esterrefatte di un lunedì mattina.
EPIDEMIOLOGIA DELLA SVEGLIA
Il contemplativo ha modo di saggiare, come e più degli altri uomini, un’esperienza apocalittica del nostro tempo, peggiore del freddo calcolo del pragmatico, dello sterile ottimismo del panglossiano, della certezza nel progresso del positivista.
Peggiore persino della logica hegeliana (della notte in cui davvero “tutte le vacche sono nere”), dell’attività macchinale; più agghiacciante del supermercato al sabato pomeriggio, delle chiacchiere obbligate dal parrucchiere a proposito di sedicenti personaggi che nemmeno conosci. Più affaticante di una conversazione con un nato sotto il segno del cancro, che anela assetato le tue conferme allo scopo di rimpolpare la propria, traballante autostima.
So che cosa state pensando, ma no, non si tratta di un’impossibilità ontologica.
Esiste un flagello che supera di gran lunga lo sconforto delle nove piaghe sommate ad un turno di capodanno ed è – qui le mani affusolate di un pianista immateriale scivolano pericolosamente verso i registri di sinistra in un lugubre da da da dah discendente – la sveglia.
Ovviamente, quando la si nomina, si avverte l’ingombrante presenza di un avverbio sottinteso eppure tremendamente insidioso, il ferale spirito del presto.
Occorre qui posare la penna e concedere all’autore stremato qualche secondo di silenzio (cacciando a male parole il pianista precedentemente nominato che, in un ultimo attimo di libertà, è riuscito a piantare le nobili palme sulla tastiera per farle infine precipitare fino ai registri più ispidi.
Come un fulmine a ciel sereno in un tranquillo pomeriggio d’estate, il suono della sveglia irrompe con clamore infernale nella piccola stanza, sconvolgendo lo scenario paradisiaco che caratterizza le ore del riposo mattutino.
Accidenti! Stavo sognando. Non ricordo molto…un safari, una jeep impolverata, una vigile macchina fotografica, pronta ad immortalare un tramonto antico, scenario edenico in fiamme sulla linea dell’orizzonte. Il sole, caldo e fumante che decade cedendo il passo all’infinito. Come ad un lenzuolo, morendo si appiglia ad un lembo di cielo, che si irradia di quarzi, coralli e rubini.
Forse un uomo nobile e buono, un poeta d’altri tempi stava sbirciando l’obiettivo della macchina, reclinando con dolcezza il capo appena oltre la mia spalla, candida altura iridata dagli estremi bagliori del giorno.
Ma il motivetto della sveglia riprende per la seconda volta, la terza. Così il bieco crescendo di suono e di ritmo strappa al ricordo ogni particolare dell’immaginazione onirica, soppressa dalla polifonia inarrestabile del cellulare.
Tutto è perduto. Il sogno scolora nell’oblio. Scivola via liquido, sconfitto, come una goccia di pioggia abbandona irrimediabilmente le falde inospitali di un impermeabile. La mano formicolante si tende, si accartoccia e si riapre. Una volta, due, poi l’indice rassegnato traccia una retta sullo schermo, verso destra, verso il tasto (ti prego!) spegni.
Un sospiro di sollievo, uno solo, breve e austero. Poi il contemplativo da prono si mette supino, da supino si spinge su un fianco (qui la tentazione di affondare il viso fra le braccia di Morfeo diventa una minaccia tangibile e quanto mai dolce).
Eppure, con un afflato d’inusuale senso pratico, si mette a sedere, corrugando orribilmente il volto, come se tra i denti stringesse un limone. Rapidi movimenti di polsi lasciano che i pugni stretti stropiccino gli occhi increspati e lattiginosi come creste d’onda.
Alzati uomo pensante! Levati ed ergiti in tutta la tua maestosità. Un nuovo giorno è sorto, il sole è alto. Ed è questa l’unica ricorsiva ragione che ti motiva a sollevarti salendo sulle punte dei piedi, ad allungare le braccia verso l’alto e lateralmente, al ritmo sostenuto di ampi e profondissimi sbadigli.
Il tutto con gli occhi chiusi, finché la palpebra destra timidamente scopre la nostra immagine davanti allo specchio; e qui balugina nella sua oceanica vastità il dubbio. Dedicarsi agli affari del mondo, prepararsi, uscire, decidere scientemente di farsi comprimere in un vagone del metrò per poi gravarsi del peso del lavoro, oppure gettare il senno alle ortiche. Pascersi sotto le coperte ad oltranza, finché sola non urga l’unica necessità propriamente umana, cioè divina, il desiderio di scrivere oppure di meditare fra sé e sé?
Il sole è alto ed è questa l’unica ricorsiva ragione che ci ha condotto fuori di casa, ad inalare tiepida e pura l’aria benevola di un mattino di marzo.
Bellissimo questo scritto, specialmente la parte del sogno e il brusco risveglio! Mi si addice tanto. Mi piace questa volta il tuo modo di fluire fra la poesia e la filosofia. Fra il sogno e la realtà quotidiana. Ma la realtà non è poi un sogno collettivo?
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Grazie Scribacchina1, sono molto felice che ti sia piaciuto questo secondo Quaderno che, come dici tu, è una dialettica fra poesia e filosofia, un punto di vista sulla scrittura filtrato da occhi poetici. E il tuo commento non è da meno.
Infine, cosa risponderti? Ebbene sì la realtà è in fondo un sogno vivido, non però di una collettività secondo me, piuttosto di un singolo.
Non vedo l’ora di leggere i tuoi prossimi scritti! A presto.
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Heideggeriani annoiati è un bell’ossimoro! Chissà come avrebbe commentato questo testo il mitico Martin e chissà che rapporto aveva lui con la sveglia! ^_^
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Grazie di cuore Romolo, in effetti si tratta proprio di un ossimoro! Felice che la lettura ti sia piaciuta😀
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