La poesia moderna, se dev’essere presa sul serio, deve essere collocata sullo sfondo di quella crisi dell’esperienza che era stata oggetto di uno scritto precedente. Infatti, nella modernità la poesia non si fonda su una nuova esperienza, ma su una mancanza di esperienza senza precedenti, su una povertà ; ne avevo parlato in precedenza.
Le sole esperienze possibili per il poeta moderno – il riferimento è Baudelaire – sarebbero esperienze di espropriazione e testimonierebbero la crisi del soggetto, dell’io. Nella visione antropologica baudelairiana, i sentimenti cardine sono l’ennui (la noia) e lo spleen (inquietudine, angoscia e scontento). Non si tratta di sentimenti individuali, ma di una condizione universale, che come una malattia mortale affliggerebbe l’umanità intera.
La noia, lo spleen e la vergogna non sarebbero nemmeno sentimenti soggettivi in senso proprio, ma piuttosto sentimenti ontologici, o correnti alterne di de-soggettivazione e soggettivazione che attraverserebbero l’essere dell’uomo.
Sebbene la filosofia successiva a Kant abbia cercato di colmare la frattura dell’esperienza, i poeti e i linguisti moderni (più dei filosofi) sarebbero riusciti a compiere un vero passo avanti nella diagnosi del proprio tempo.
Nell’opera di Baudelaire, infatti, è centrale l’esperienza dello choc, della sorpresa generata dalla scoperta del nuovo, che implicherebbe una falla nell’esperienza e che ne mostrerebbe così l’insufficienza.
Il poeta reagisce a questa situazione lasciandosi affascinare nella quotidianità da ciò che è inesperibile e inconoscibile (di qui il gusto per le donne fatali, per l’esotismo, la droga e il gioco d’azzardo), cioè rivendicando tale espropriazione come la sua caratteristica più propria.
Come in Baudelaire, anche in Rimbaud e in Proust, l’estraneità, la povertà d’esperienza risulterebbero essere il nuovo “luogo comune”, o la nuova “dimora”, dell’umanità moderna.
Allo stesso modo, il poeta Rilke si definisce un “diseredato” della sua epoca, un uomo che oscilla inerme fra due mondi differenti, senza appartenere a nessuno dei due: il mondo dell’accumulazione dell’umano, cioè dell’esperienza (dell’esperibilità), per il quale prova nostalgia, e il mondo dell’American way of life, della “vibrazione del denaro” e delle apparenze di cose.
Ed è significativo che Rimbaud, allo scopo di proporre una nuova “poesia oggettiva”, “greca”, scriva Je est un autre, in cui sembrerebbe che l’io non possa che essere svalutato come soggetto del pensiero, contra Descartes. Scrive il poeta:
‹‹è falso dire: Io penso: si dovrebbe dire io sono pensato – scusi il gioco di parole. IO è un altro››.[1]
E nella lettera “del Veggente”:
‹‹Io è un altro. Se l’ottone si sveglia tromba, non è affatto colpa sua. Per me è evidente: assisto allo schiudersi del mio pensiero: Io osservo, Io ascolto: lancio una nota sull’archetto: la sinfonia fa il suo sommovimento in profondità, oppure d’un balzo è sulla scena››.[2]
[1] Cfr. A. Rimbaud, Lettera a G. Izambard, 1871.
[2] Cfr. A. Rimbaud, Lettera a P. Demeny (Lettera “del Veggente”), 1871.
Sono impareggiabili…meravigliosa poesia che mi ha fatto riflettere e volare..
Ti lascio un ascolto, spero lo gradirai..
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Ti ringrazio molto cara Marzia! Sono contenta che ti sia piaciuto questo componimento. Grazie per il link😉e a presto
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