Noi crediamo di sapere qualcosa delle cose stesse quando parliamo degli alberi, dei colori, della neve e dei fiori e tuttavia non possediamo niente altro che metafore delle cose, che non corrispondono affatto alle essenze originarie.
[F. W. Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale, 1873]

Tutti parliamo, scriviamo, ma che cos’è il linguaggio? Il linguaggio consiste essenzialmente di metafore e invenzioni arbitrarie, almeno secondo Nietzsche. Ma, se il linguaggio ha un carattere arbitrario, che cos’è la verità?
Nello scritto del 1873, Su verità e menzogna in senso extramorale, Nietzsche affronta per la prima volta in maniera esplicita la questione della verità (da questo traggo le citazioni che seguono). Più di dieci anni dopo arriverà ad affermare che la verità, al di fuori del senso morale, si giustifica solo come mezzo di conservazione e di potenziamento della specie-uomo, ovvero come volontà di potenza.
Nietzsche disintegra il concetto di verità, affermando l’incomunicabilità tra la realtà e il linguaggio: la verità come corrispondenza della conoscenza alla cosa è un’illusione. Affinché una qualsiasi proposizione possa avere un carattere di verità sarebbe necessario che la parola nominasse direttamente la cosa, la realtà. Ma ciò è impossibile: occorre indagare la questione da un’altra prospettiva. La domanda “cos’è la verità?” subisce una trasposizione e diventa così una domanda sull’origine: “da dove viene la verità?“.
La verità viene così definita:
un mobile esercito di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve, una somma di relazioni umane, che sono state poeticamente e retoricamente ingigantite, trasposte, ingioiellate e che, per essere state usate a lungo, appaiono ad un popolo salde, canoniche e vincolanti: le verità sono illusioni di cui si è dimenticato che sono tali.
L’immagine della verità come un esercito di metafore serve per evidenziarne il carattere derivato, arbitrario e sostanzialmente falso, cioè non aderente alla realtà. Infatti le cose e le designazioni delle cose non coincidono affatto.
La parola non è altro che la raffigurazione in suono di uno stimolo nervoso. Lo stimolo nervoso viene trasferito in un’immagine (questa è la prima metafora), poi l’immagine viene “plasmata in un suono” (seconda metafora) . La parola è una metafora, una trasposizione; realtà e linguaggio sono due sfere del tutto separate.
Solo dimenticando questa attività metaforica, l’uomo può arrivare a credere di possedere la verità come adeguata espressione della realtà, così come viene insegnato dalla tradizione metafisica (veritas est adaequatio intellectus et rei) e affermato dal senso comune.
La realtà che incontriamo e che pensiamo di conoscere attraverso giudizi “veri” sulle cose si presenta come una “enigmatica x”, un’incognita che viene trasposta arbitrariamente in stimolo nervoso (percezione), in immagine (rappresentazione) ed infine in suono (parola).
Quando affermiamo una verità del tipo “questa è una foglia” non facciamo altro che riconoscere ciò che precedentemente abbiamo stabilito essere tale, questo tipo di giudizio è tautologico.
Se qualcuno nasconde una cosa dietro un cespuglio, e poi la va a cercare proprio là e la trova pure, non c’è da vantarsi molto di questa ricerca e del ritrovamento.
Allora, appare evidente che la verità logica non ha alcun carattere veritativo sul piano ontologico; essa è confinata al mondo simbolico in cui l’uomo risiede, un mondo fatto di metafore, e che non corrisponde affatto al mondo reale. La verità non è che una produzione artistica dell’uomo.
Eppure la verità è necessaria per l’uomo, in quanto mezzo di conservazione. La verità sta all’uomo come i denti aguzzi stanno all’animale feroce: senza di essi non potrebbe sopravvivere.
Consiglio a tutti la lettura del testo del giovane Nietzsche (appena ventinovenne ) che è possibile trovare facilmente in formato .pdf ad esempio qui, qui, e qui.