MODERNITÀ FA RIMA CON POVERTÀ Genealogia benjaminiana della crisi dell’esperienza

 

2.MACCHINA ANTROPOLOGICA

‹‹Che valore ha l’intero patrimonio culturale, se proprio l’esperienza non ci congiunge ad esso? A che cosa porti simularla o capirla con l’inganno, questo il raccapricciante guazzabuglio di stili e di visioni del mondo del secolo scorso ce l’ha reso troppo chiaro, per dover ritenere disonorevole confessare la nostra povertà. Sì, ammettiamolo: questa povertà di esperienza non è solo povertà nelle esperienze private, ma nelle esperienze dell’umanità in generale. E con questo una specie di nuova barbarie››

[W. Benjamin, Esperienza e povertà]

Nel breve saggio Esperienza e povertà, Benjamin aveva diagnosticato l’estrema povertà di esperienza che sembrerebbe affliggere l’uomo moderno. Anche se egli si sfinisce in una “farragine di eventi” ed è sempre indaffarato in questa o in quella cosa – si pensi ad una giornata caotica in una grande città – nessuno di questi eventi si trasforma in un’esperienza.

Il quotidiano in passato era per Benjamin ciò di cui si poteva fare esperienza, la materia prima (il contenuto trasmissibile) dell’esperienza ed era, allo stesso tempo, ciò che conferiva ad essa autorità[1]; l’evento più comune diventava la “particella di impurità intorno alla quale l’esperienza addensava, come una perla, la propria autorità”. Mentre ciò che caratterizza il tempo presente “è che ogni autorità ha il suo fondamento nell’inesperibile”.[2]

L’umanità moderna non sarebbe più capace di esperienza. Ha svenduto “un pezzo dopo l’altro” e “a un centesimo del valore” l’intera eredità delle esperienze del passato, per cercare di ottenere in cambio “la monetina dell’attuale” – segno tangibile di un presente spettrale e barbarico[3] – e si è ritrovata in miseria. Il proverbio e la massima (le forme in cui l’esperienza tradizionale veniva tramandata) sarebbero caduti in discredito, lasciando il posto allo slogan, che corrisponderebbe al “proverbio” di un’umanità espropriata dell’esperienza.

Non è che, per l’autore, nella modernità non esistano esperienze in senso assoluto; anzi, al contrario, esse si darebbero, ma il luogo del loro “dilagare” non sarebbe più l’uomo (che in questo senso sarebbe stato letteralmente espropriato).

Le esperienze dell’oggi, secondo il progetto della scienza moderna, sarebbero state trasposte in una sfera massimamente distante dall’umano e dal vivente cioè negli strumenti e nei numeri.

A causa di questa transizione, l’esperienza in senso tradizionale, se non si può dire definitivamente congedata, sarebbe possibile forse solo nella sua veste non umana e astratta, come legge scientifica o come grafico, cioè in qualcosa di in-esperibile e non-soggettivo (in qualcosa di inappropriabile).

La povertà di esperienza non andrebbe intesa, afferma Benjamin, come se gli uomini anelassero ad una nuova esperienza, bensì come il desiderio opposto di essere esonerati dalle esperienze, di abitare in un ambiente che addirittura ostenti senza alcun velo questa povertà d’esperienza.

Il termine povertà non sarebbe quindi il correlato della rarità di esperienza, ma al contrario esso starebbe ad indicare la saturazione e la stanchezza di un’umanità che ha “divorato” tutto, tutte le esperienze, la cultura e infine se stessa e che si è ritrovata sazia e stanca.

Per quale motivo, “le quotazioni dell’esperienza” sarebbero cadute vertiginosamente proprio nella generazione che aveva vissuto una delle più mostruose esperienze, cioè la guerra del 1914-18? Perché mai la gente tornava indietro ammutolita dai campi di battaglia? Per Benjamin tutto ciò “non era strano”; egli scrive con una vena polemica:

‹‹Poiché mai esperienze sono state smentite più a fondo di quelle strategiche attraverso la guerra di posizione, di quelle economiche attraverso l’inflazione, di quelle fisiche attraverso la fame, di quelle morali attraverso i potenti››.

Se ora, con l’autore, volessimo tentare di tracciare una genealogia della “crisi dell’esperienza” che imperverserebbe nel secolo, sarebbe necessario volgere lo sguardo all’epoca di Descartes e del sorgere della scienza moderna, in cui sarebbe nato, per la prima volta, il moderno soggetto (cartesiano prima, trascendentale poi) e in cui, simultaneamente, il problema dell’esperienza sarebbe stato impostato sulla base di un inesperibile.

Agamben, sulla falsariga del programma di ricerca benjaminiano, si accingerebbe a denunciare il naufragare – tutto moderno – dell’esperienza in senso tradizionale, ad indagarne le cause e a stabilire i “responsabili” di questa crisi che sarebbero Descartes prima e Kant poi.

Agamben procede ad una critica del progetto della scienza moderna, che ha espropriato l’uomo dell’esperienza trasponendola nell’esperimento, e cioè negli strumenti di misura e nei numeri, e riferendo conoscenza ed esperienza ad un soggetto unico e astratto.

La posizione del soggetto d’esperienza in un soggetto trascendentale massimamente astratto e distante da se medesimo equivarrebbe allo stesso tempo alla fondazione dell’esperienza nell’in-esperibile, ovvero a porre le condizioni di possibilità di questa nel noumeno, il che contraddirebbe ogni concreta possibilità di esperire (e “salvare”) i fenomeni, cioè negherebbe all’uomo ogni concreta possibilità di fare esperienza.

Il problema della perdita dell’esperienza, che sarebbe sorto in seguito alla duplice fondazione, cartesiana e kantiana, di un soggetto astratto – e all’unificazione, in questo punto astratto, di conoscenza ed esperienza – sarebbe quindi un problema squisitamente moderno e non antico.

 

 

[1] Cfr. G. Agamben, Infanzia e storia, p. 6.
[2]Ibidem.
[3] Probabilmente il saggio Esperienza e povertà di Benjamin si ispira alle Inattuali di Nietzsche.

 

LEGGI IL SAGGIO DI WALTER BENJAMIN

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