LO SCARABEO D’ORO OVVERO AZIONI INSENSATE

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Come alle volte ci si chiede perché ci si trovi fradici sotto la pioggia a dirotto. Quando fino a poco fa c’era un sole da spaccare pietre o da far bollire il cervello, già tiepidamente sottomesso da una coltre di capelli neri.

Come un cane brama, al suono accartocciato ed estasiante di una merendina che sta per essere consumata, dimenticando di essersi mai nutrito e dimentico persino del suo stare al mondo – ad eccezione certo di quel boccone del rapporto fra sé e mondo in cui del cibo succulento fluttua elasticamente in uno spazio bianco e liscio.

Come anche quando, bando all’avarizia, si comperi ciò che ispira scoprendo poi di non avere dietro un soldo bucato uno, né in tasca né in testa.

Infatti il portafogli, bieco e mendace dispensatore di felicità, giace adesso sul fondo di quella borsa o della patta di quella giacca che però sciaguratamente non portiamo con noi, avendo giustamente preferito indossare al posto di quelli qualcosa che ci facesse sentire incredibilmente a disagio in quasi tutte le attività commerciali che oggi un’insana passione per il consorzio umano ci ha suggerito di frequentare.

O ancora come quando sulla spinta di un tiepido innamoramento per un uomo – e di una feroce passione per una cosa – ci si rechi, simmetricamente, con molto denaro ad acquistare un dono che sì, rischia d’esser negato.

Ma come? Solo perché non si ha una chiara coscienza  di se stessi, della lingua natìa, del luogo in cui un caldo rivolo di vita ha scelto di mostrarsi per dire che no, che lo stare al mondo non è un’illusione. E va bene, va bene! Si trova una certezza solo a patto di perderne un’altra?

Insomma, non si preoccupi se decide di sbatter fuori chicchessia, o lei. Non ha avuto modo di rispondere se le orecchie son buone, o forse sì se non hanno udito, fra gli altri, l’ultimo biascichio di un’indistinta umanità. Ma i soldi li ha presi però, li ha incassati esatti la villana. Proprio come si incassa un bel pugno prima di estrarre una lama o come si incassa senza batter ciglio il disprezzo del prossimo, prossimo che noi stessi disprezziamo a tal punto da porgere un bel rantolo per saluto. Ma questa è tutt’un’altra storia.

A volte si compiono azioni  insensate.

Senza pensarci, a caso, per sbaglio, coi piedi, con leggerezza, inavvertitamente, superficialmente, sbadatamente, incoscientemente, senza sale in zucca, inconsapevolmente, irrazionalmente.

Si compiono.

In certi casi non soltanto per riempire la pagina di vacue divagazioni accumulando macerie che denunciano horror vacui e orrori barocchi.

E quanti errori, orrori e quanto vuoto.

Quante macerie e calcinacci, crepe profonde, fessure infette, rovinosi crolli, quante pareti scrostate, stanze sventrate, tegole e piastrelle accatastate, tragedie affastellate, scheletri di finestre esangui e pianoforti messi a nudo.

Basta.

Ricordo solo che in quel caso sudici tegumenti sovrapposti su vari strati dividevano il proprio dall’estraneo, dall’esterno che era singolarmente freddo, inospitale, bianco e volgare.

Orribili, lo si dica con franchezza, vezzi anacronistici che se non si smette di usare incidentali e parentetiche – roboanti accumulazioni rinunciatarie – potrebbero perpetuarsi dando seguito a questo ritmo altalenante e sciocco. Davvero così fu e il dispiacere non ha smesso di calcare, con i suoi passi militareschi questo povero cuore gelido e inetto.

Si compiono e quando accade osiamo chiedere il perché. Il che è insolito ma non illecito, non giustificabile ma comprensibile.

Il guaio è un altro.

È che pretendiamo di darci una risposta, certi che la domanda abbia senso. Abbiamo fame di una risposta, o anzi gola. Gola perché, se non troviamo una soluzione che ci aggrada, che soddisfi il nostro puerile bisogno, perdiamo ogni interesse nel domandare. E la ricerca viene sospesa. Aleggia o veleggia nell’aria, sospesa e fragile come una bolla di sapone, traslucida, delicata e mortale.

A volte si rimedia una spiegazione. Piccola e parziale, snella come il collo lucente di una gazzella. Oppure possente e farraginosa, come la brama della leonessa che la azzanna, ma comunque parziale.

La spiegazione rimediata può valere poco o sempre o nulla. Di nuovo a chiedersi perché. Con una certa enfasi che non può che risultare comica come qualora ci si interroghi chiedendo “perché diedi quella zappa sui miei piedi?”.

Forse la proprietaria del negozio, quell’avida donna, aveva avuto le sue buone ragioni per espellerci, le ragioni della madre che difende i suoi cuccioli da ciò che potrebbe danneggiarli. Ma questa/quella è la storia che ci perseguita e non quella di cui intendevamo rendervi edotti. È una narrazione vicaria, temporalmente ed essenzialmente inesatta. Una ladra, una lestofante, che ha usurpato il ruolo della nobile compagna: la storia non raccontata ma potente, incisiva e ferale come la punta della lancia scagliata anni addietro.

Sotto quale rispetto, in quali condizioni, sotto la spinta di, mossi dalla necessità di, costretti da, in quale circostanza, sotto quale profilo, dal punto di vista di chi, per che cosa e al posto di che cosa. Certo, magra consolazione, sarebbe stato meglio procedere altrimenti.

Questo però vale solo per quegli ingenui che credono che il basso non sia mai una dimensione assoluta.

Che si trovi o non si trovi la risposta è un’altra. Più giovane e recente. Artificialmente naturale. Una costruzione così sapiente da sembrare già sempre vera dall’origine. Non che un solo elemento in tutto ciò debba essere vero. Ma questo è il gusto per il quale lottava il corpo estenuato. Una spiegazione ad hoc, benefica come un farmaco o come una tisana al loto.

Egli era buono e temibile allo stesso tempo.

Forse si sarebbe potuto ritenere che lo stato di soggezione da lui indotto dipendesse proprio dalla sua rettitudine, dall’ideale di vita proba e retta che sosteneva, come un’intelaiatura di virtù, le sue movenze e le notevoli corrugazioni sul suo volto. Il tutto però in tono minore, o meglio come un sottofondo, a stento avvertibile eppur piacevole.

In quell’occasione però non fu capace (o forse che dal basso non si possano udire parole iperuranie se non distorte?) di comunicare alcuna emozione all’infuori di un sentimento misto. Di un moto di commozione, misto a stima.

Rispetto per la magnanimità che dimostrava, ma soprattutto gratitudine – tremolante di pianto – perché il disprezzo non lo scompose, né lo convinse a scansare una responsabilità che avrebbe potuto coinvolgerlo nell’indifferenza e nella tiepida astensione da ogni giudizio.

Egli volle invece tener fisso lo sguardo nell’abisso.

Indugiare nel dolore e nello scandalo di insensatezza che, come un baratro a precipizio nel nulla stava inghiottendo la sua pupilla, vittima ed artefice ad un tempo di un oceanico dolore.

Solo adesso infine avrebbe senso iniziare a raccontare dall’origine.

Ma si stava parlando di azioni insensate. E di uno scarabeo d’oro che ben ricordo. Se ben ricordo.

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