Una visione radicale della natura; il Sogno di d’Alambert di Diderot
“A memoria di rosa, non si è mai visto morire un giardiniere“
[Denis Diderot, “Il sogno di d’Alambert”, 1994]
Le Rêve de D’Alembert (Il sogno di D’Alambert) è un brillante dialogo filosofico scritto nel 1769 e pubblicato postumo nel 1830; in esso si confrontano Diderot e D’Alambert.
Quest’opera segna il punto d’approdo del materialismo di Diderot, l’esito più radicale della sua riflessione filosofica. È interessante anche dal punto di vista letterario per l’originale forma dialogica: al delirio di Diderot, si intrecciano le domande di Mademoiselle D’Espinasse e le spiegazioni scientifiche di D’Alambert.
La finzione del sogno è l’espediente utilizzato da Diderot per rispondere a due diverse esigenze: in primis, lo spazio del sogno è il luogo più favorevole per la libera formulazione degli esiti più radicali e audaci del suo pensiero; inoltre, questo espediente consente all’autore di rimanere sul vago, cioè di esprimere le sue tesi in una formulazione fluida e non lineare.
Due punti sono centrali nell’opera di Diderot: la concezione materialista della realtà, che è presentata come incessante divenire, e il primato della sensibilità.
Secondo il filosofo, la vita dell’uomo è segnata dalla precarietà; l’unica certezza è il prodigio della vita che, sostanzialmente, coincide con la sfera della sensibilità.
L’autore vuole sottolineare il carattere limitato dell’umana conoscenza. Il soggetto conoscente, pur cercando di porsi da un punto di vista il più possibile oggettivo, è soggetto a una serie di condizionamenti, è cioè limitato dalla situazione storica e dalla finitezza.
Per questo lo sguardo dell’uomo risulta intrinsecamente parziale e fallibile. Per chiarire meglio tale condizione, Diderot cita l’audace battuta di Fontenelle, “a memoria di rosa, non si è mai visto morire un giardiniere”[1].
Nella prima sezione dell’opera, intitolata “Dialogo fra d’Alambert e Diderot”, l’autore discorre con il suo collaboratore d’Alambert a proposito della distinzione che intercorre tra la materia inerte e la materia che costituisce gli esseri viventi.
Mentre d’Alambert si colloca in continuità con il pensiero tradizionale e ritiene che un abisso separi il marmo dalla carne, Diderot espone una curiosa concezione basata sulla sostanziale continuità tra il mondo organico e quello inorganico. Il fatto che la materia inerte si trasformi in organismo vivente è un fenomeno molto più comune di quanto si possa pensare. Argomenta Diderot:
“ciò accade tutte le volte che mangiate […] sì, perché mangiando, che cosa fate? Rimuovete gli ostacoli che si opponevano alla sensibilità attiva dell’alimento. Lo assimilate a voi stesso, lo rendete carne, lo animalizzate, lo rendete sensibile; e ciò che voi eseguite su di un alimento, io lo eseguirò quando mi piacerà sul marmo”[2]. Allora Diderot immagina di polverizzare una statua di marmo di Falconet:
“Quando il blocco di marmo è ridotto in polvere impalpabile, mescolo questa polvere con dell’humus o terra vegetale; li impasto bene insieme; innaffio la miscela, la lascio putrefare un anno, due anni, un secolo; il tempo non mi importa. Quando il tutto si è trasformato in una materia press’a poco omogenea, in humus, sapete che cosa faccio? […] C’è un tramite di unione, di appropriazione, fra l’humus e me, un latus, come vi direbbe il chimico”
“e quel latus è la pianta?” domanda d’Alambert.
Risponde Diderot: “Per l’appunto. Vi semino piselli, fave, cavoli e altre piante leguminose. Le piante si nutrono della terra e io mi nutro delle piante.”
Procedendo nel dialogo fra i due pensatori, è interessante il dibattito relativo all’origine degli animali; d’Alambert afferma che, senza supporre l’esistenza di “germi preesistenti”, non è possibile concepire la prima generazione degli animali.
Per Diderot questo tipo di ipotesi non ha alcuna validità, perché ritiene che l’origine dei viventi che conosciamo sia oscura tanto quanto il loro destino. In altre parole, ragionare in questi termini non tiene conto del carattere diveniente della natura; Diderot esprime queste riflessioni con grande chiarezza ed efficacia:
“Se la questione della priorità dell’uovo sulla gallina o della gallina sull’uovo vi mette in imbarazzo, è perché supponete che gli animali siano stati originariamente ciò che sono adesso. Che follia! Non si sa ciò che sono stati, più di quanto non si sappia ciò che diventeranno. Il vermiciattolo impercettibile che si agita nel fango forse si avvia forse verso lo stato di grande animale; l’animale enorme, che ci spaventa per la sua grandezza, si avvia forse verso lo stato di vermiciattolo, è forse una produzione particolare e momentanea di questo pianeta”.
D’Alambert rifiuta, pur definendosi uno scettico, di abbandonare le sue certezze; il suo comportamento si potrebbe considerare, in termini nietzscheani, “troppo umano” quando afferma con dispiacere che, senza postulare una divina intelligenza ordinatrice, la nostra conoscenza delle cose sarebbe ancora più limitata.
Diderot domanda quindi a d’Alambert se sia lecito inventare un agente contraddittorio nei suoi attributi, una parola priva di senso, per spiegare il mistero della genesi dei viventi. Non sarebbe utile per fare luce su un problema che giace nell’oscurità, introdurre un concetto ancora più oscuro.
Diderot vuole fare un lavoro critico nei confronti delle facoltà conoscitive dell’uomo. In maniera analoga a Kant, egli comprende che la conoscenza è possibile soltanto a certe condizioni; ci sono oggetti che non possiamo conoscere.
A differenza di Diderot, Kant ritiene che le idee della ragione, seppure prive di valore conoscitivo, possano avere un valore regolativo, cioè possano essere valide dal punto di vista pratico.
Diderot prende posizione in modo ancora più radicale, in linea con la concezione materialistica e monistica della realtà. Dice infatti:
“Vi è una sola sostanza nell’universo, nell’uomo, nell’animale. L’organetto è di legno, l’uomo è di carne. Il canarino è di carne, il musicista è di carne diversamente organizzata; ma l’uno e l’altro hanno una stessa origine, una stessa formazione, le stesse funzioni e la stessa fine”[3]. Le parole di Diderot sono difficili da accettare per d’Alambert che, sconvolto dalla strana conversazione, passa la notte a letto febbricitante e delira. Mademoiselle de L’Espinasse, amante di d’Alambert, ascolta preoccupata il delirio dell’uomo e annota per filo e per segno le sue parole, pur non comprendendole. Il giorno dopo, la signorina legge al medico Bordeu quanto è riuscita ad afferrare del vaneggiamento dell’amato; questo è l’argomento della seconda sezione che dà il nome all’opera, “Il sogno di d’Alambert”.
Il tema centrale del discorso-vaneggiamento del pensatore è il rapporto uno-molti; il concetto di individuo è un concetto problematico, perché l’individuo è composto di parti. Anche le parti, però, hanno un’esistenza a sé; noi definiamo “individuo” un aggregato di parti che ci appare come un’unità stabile, ma le cose non stanno così.
grazie 👌
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Grazie a te, caro ArcadioLume, spero che l’articolo ti sia piaciuto🙏
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eccertochessi 😁
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Adoro queste tue analisi – studio Acu. Esigono concentrazione e motivazione, la giusta richiesta per imparare a stare al mondo in maniera sobria.
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Onorata😊grazie davvero, caro Tony! A presto!
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Grazie per aver “lanciato” sul blog questo testo di Diderot: ottima sintesi e stimolo alla lettura. Ciao!!
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Caro Lorenzo, sono felice che tu abbia apprezzato, grazie di cuore
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